sabato 18 agosto 2012

De Chirico e le piazze senza tempo



Piazze d’Italia. Dove si decide la vita della città, incrocio di politica e società, dove si aggregano i pensieri per poi – immagine metafisica percepibile a pochi – riversarsi sulla gente e sullo spazio circostante.

Piazza come il foro romano, come l’agorà ateniese, come le piazze (profondamente legate agli esempi greco-romani) di Giorgio De Chirico, personaggio del nostro tempo capace di rappresentare la realtà in una visione nuova, deformata dall’animo e posta in un ambiente illogico, di cui continua a mostrarne i tratti.

Un’andata e ritorno della realtà, dal fisico al metafisico, e dal metafisico ancora al fisico.

Le opere metafisiche di De Chirico, personaggio inquietante ed enigmatico, contraddittorio ed incomprensibile, sono caratterizzate da un diversificato ventaglio di soggetti e tematiche, tutte legate alla sua formazione culturale (la Grecia e il mito, la filosofia e la letteratura) e dall’enorme capacità percettiva dell’artista, che riesce a guardare dentro la realtà, e distorcere la fisicità in una nuova dimensione. Dai manichini alle piazze, dai cavalli alle nature morte, dai ritratti ai paesaggi, in ogni passaggio della sua carriera artistica, De Chirico è sempre un metafisico in modo naturale, e così come affermava qualche anno fa in un’intervista rilasciata ad “Arte” la sua seconda moglie Isabella Far, De Chirico:

“La metafisica l’ha sentita, sognata, vista, in un sogno allo stato di veglia. E non la rinnegò mai, anche se dipinse nature morte e paesaggi veneziani.”


Come nasce un quadro metafisico? Come si può modificare la realtà eppur rappresentarla? L’artista stesso ce lo suggerisce in un commento al suo primo quadro metafisico, (Enigma di un pomeriggio d’autunno del 1910)



“…in un limpido pomeriggio autunnale ero seduto su una panca al centro di piazza Santa Croce a Firenze. Naturalmente non era la prima volta che vedevo quella piazza: ero uscito da una lunga e dolorosa malattia intestinale ed ero quasi in uno stato di morbida sensibilità. Tutto il mondo che mi circondava, finanche il marmo degli edifici e delle fontane, mi sembrava convalescente. Al centro della piazza si erge una statua di Dante, vestita di una lunga tunica, il quale tiene le sue opere strette al proprio corpo e il capo coronato d’alloro pensosamente reclinato… Il sole autunnale, caldo e forte, rischiarava la statua e la facciata della chiesa. Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si rivelò all’occhio della mia mente. Ora, ogni volta che guardo questo quadro, rivedo ancora quel momento. Nondimeno il momento è un enigma per me, in quanto esso è inesplicabile. Mi piace anche chiamare enigma l’opera ad esso riservata”.
Ecco! Il momento in cui l’occhio della mente guarda e percepisce la rivelazione, il momento in cui l’immagine si sdoppia e il tempo degli orologi si ferma), un tempo che riprende a scorrere con i treni che passano (L’incertezza del poeta, 1913, Canto d’Amore 1914), dietro muri, lontani, persi all’orizzonte, di cui abbiamo conoscenza come confini esistenti ma irraggiungibili. Ma la piazza muta. Non è mai statica esistenza, ma è la vita che si muove, che costruisce (Nostalgia dell’infinito, 1913) e la Torre rossa, 1913), che perde gli accenni all’antichità e ne cerca di nuovi, tra le ombre dei portici e il desiderio di luce.


E poi ad un tratto, quando la presenza umana si è rilegata a sagome abbozzate e piccoli segni, rifiuti che non si possono rinnegare, né cancellare, arrivano i manichini, la nuova umanità, la filosofia, la saggezza, il pensiero. Allo stesso tempo ispirati ma dissimili da quelle figure che le piazze avevano ospitato fin’ora. Eccoli i nostri nuovi protagonisti, la rinascita di una vita fissa in una figura immobile, eppure più viva. Della serie dei manichini il quadro più famoso è certamente Le Muse inquietanti (1918) ispirato al soggiorno ferrarese dell’artista, che già qualche anno prima aveva avuto cura di rappresentare la vita cittadina attraverso “La rivolta del saggio“, includendo in uno stesso “scatto” gli oggetti della vita quotidiana fino a farne una perfetta natura morta.

Sono loro le nostre ispiratrici, la chiave che svela l’enigma, Le Muse inquietanti, silenziose e sole, senza possibilità di pubblico, semplicemente collocate in una memorabilia urbis circondata dalle moderne ciminiere fumanti, un castello silenzioso e la città stessa che le avvolge e forse imprigiona. C’è qualcosa di irrazionale in questa piazza, suggerisce la mente attenta. L’irrazionalità di una realtà trasfigurata, di una città nuova eppur solita, sono io o sei tu?

C’è un segreto che ci è nascosto. C’è un messaggio che dovremmo capire, scorgere nei colori caldi e fermi, privi di vibrazioni atmosferiche, in quella luce bassa opposta alle lunghe e definite ombre. Lo spazio, il nostro spazio, si è fatto allucinante. E’ un luogo sognato? Esiste ancora la vita? Il filtro della mente e l’intuizione del genio.

Le nostre piazze come quelle di De Chirico.
Piazze d’Italia popolate di manichini, siamo noi e sono loro, luoghi veri dalla logica impossibile, dove non c’è più il tempo, ma orologi fermi e treni che vanno, e che non arriveranno mai.

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